25 ottobre 2024
Communication Manager: cosa fa, stipendio, responsabilità e competenze
In un'epoca in cui le informazioni viaggiano alla velocità della luce e la reputazione ...
Di intelligenza artificiale se ne parla tanto, tantissimo. Tanto che ognuno di noi ha sostanzialmente una propria definizione di AI. Anche per questo è nata AI Revolution - The business game-change, la serie di conversazioni con alcuni dei più grandi pensatori e professionisti del settore organizzata da 24ORE Business School e che ho il piacere di moderare.
Dopo il primo confronto con Padre Paolo Benanti su Algoretica e sulle sfide e orizzonti dell’AI per un nuovo Umanesimo Digitale, il secondo episodio della serie si è svolto in modalità digitale insieme a Massimo Chiriatti - Chief Technical & Innovation Officer di Lenovo Italia e autore, tra gli altri, dell’ultimo "Incoscienza artificiale. Come fanno le macchine a prevedere per noi" (LUISS University Press, 2021).
Massimo Chiriatti parte con la definizione dell’AI - una disciplina che usa i computer per leggere le nostre orme, i dati che abbiamo lasciato nel passato. Proprio i dati ne sono alla base: vengono analizzati e servono a fare previsioni future, ad aiutarci nel decidere come agire nel mondo. In questo periodo, poi, le macchine hanno iniziato a produrre contenuti in termini di testo, immagini, video, codice informatico.
In tutte le implementazioni, gli elementi dell’AI sono principalmente tre:
Dati: dentro cui in passato abbiamo lasciato le nostre preferenze sistematiche, tale per cui la macchina potrebbe discriminare con distorsioni e bias
Capacità computazionali
Algoritmi: ricette attraverso cui noi diamo istruzioni alle macchine - programmandole e dando regole, oppure facendo in modo che esse siano addestrate.
Noi dalle macchine stiamo avendo risultati ottimi: ma esse non sanno il significato delle parole, non sanno le leggi della grammatica o della fisica, e così via. Di tutto questo ne viene colto solo un pezzo di significato: solo comprendendone i limiti riusciamo a capire che non è magia o intelligenza - ma calcolo algoritmico. In altre parole: le macchine, almeno ad oggi, non hanno un cuore.
Allora, allontanandoci dalle mode manageriali e dagli effetti sensazionalistici dove è facile cadere quando si parla di AI, quando dobbiamo (o meno) usare l’intelligenza artificiale?
Quando l’azienda non ha dati ma c’è già un esperto di dominio riconosciuto non ha senso usare l’AI.
Quando invece abbiamo tantissimi dati ma non le regole, ci affidiamo alla macchina che ci dà un suggerimento perché ha trovato correlazioni (che però, attenzione, possono essere anche spurie).
In questo secondo caso dobbiamo usare l’AI ma avendo in mente che la macchina non decide mai - fa solo un calcolo numerico. Sta a noi prendere quel calcolo e mettere insieme un team multidisciplinare per contestualizzarlo. La macchina non ha un corpo per fare esperienza del mondo, siamo noi a conoscere e ad avere un corpo per fare esperienza.
La macchina si può pentire delle decisioni che ha preso? Se concordiamo per il no, capiamo che non sa cosa sta facendo. La macchina è incosciente, non ha una responsabilità quando deve decidere di applicare delle azioni nel mondo, e non è nemmeno intelligente. Mette insieme e integra solo i pixel che vede. Noi, come esseri umani con un corpo e una scadenza, una progressione temporale entro cui vogliamo realizzare obiettivi, abbiamo in mano i valori dell’etica. Solo noi, dunque, possiamo comprendere al meglio come usare e orientare la macchina per raggiungere obiettivi costruttivi e virtuosi.
Insomma: occorreranno ancora tanti premi Nobel e nuovi modelli che aiutino la macchina ad avere comprensione del mondo.
Autore: Alberto Maestri, Managing Partner & Board Member GreatPixel
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